DI TERRA, D’AMORE E DI ALTRI LUOGHI

di Daniele Salis

Un viaggio latino americano, tra musica e parole.

Senza Titolo – Marcia Teophilo (Brasile)
Quando nelle sue notti di fuoco Yací spaventata si sveglia / Boto si trasforma / in guerriero e invade il suo letto. Le voci soffocate / nel buio, cresce il silenzio, serpente lui si arrotola / e si avvolge al suo corpo / Poco a poco sale sinuoso, tra le carezze ammorbidendo / l’asprezza delle squame. / Fra i suoi lunghi capelli s’alza dicendo: amore mio / E pietra, è acqua. / Dov’è il suo nido? Navigando fra foglie / archi cipressi lo raggiunge in delirio, / togliendole il respiro: nuvola lei, polpa di frutta matura, / odori selvaggi e colori. / Pensieri senza senso esaltano il suo corpo: / i suoi sensi sette balzi di gatto lascivo, / s’interroga, pensa, singhiozza tra le trecce. / Yacì gli abbraccia le cosce dorate. / Molto lontano comincia il tuo fiume Boto. / In disaccordo s’incrociano sguardi profondi, / Lei cerca forza nelle sue viscere. / Le unghie lacerano i fianchi, le gambe, la schiena di Boto: / Vendetta bramata. / Ascolta il suo nome sussurrato da lui: Yací. / Boto senza rimorso ferisce e lei si scioglie. / Lo cerca nelle notti senza riposo, / nei giorni seguenti arriva inatteso. / Lui appare e lei si esalta. / Cavalli, nidi, uccelli, farfalle, / legni, monti, rami, sfere ruscelli / Boto metà acqua / metà pesce e metà uomo. / Quando ama tocca il fondo del fiume, cavalca travolto / dalle acque, inonda gli arbusti tra le isole. / Yacì stringe le squame fra le braccia / pesce che fugge, sapore di acqua e frutti di mare / Boto, pesce sale-sole-sale. Vita. Respiro La luce appare e scompare nel fondo delle acque/ l’odore dei frutti è più intenso quando arriva la notte / gli animali cominciano ad azzittirsi / e dalle acque emerge un canto. Attenti quando Yara vi chiama per nome/ sono abissi / Chi diceva questo era una vecchia india / così vecchia / che già non si contavano / le lune della sua età.

 

Quel che c’è nel mio cuore –  Marcela Serrano (Santiago del Cile)
Fermati un attimo, Luciano, mi fa male dappertutto, non riesco a mantenere questa posizione come ti avevo promesso… se mi distendo sul pavimento perderò la concentrazione… o magari mi addormento… la fame mi attanaglia lo stomaco… ma non voglio lasciarmi sfuggire le tue parole… ah Luciano, che cosa fai? Ritorna da me!…
Ebbe amori lassù, eccome! Anche in quella vita così inusuale si riusciva a preservare una certa intimità, le coppie facevano la loro “posizione” in disparte (chiamavano “posizione” il luogo dove sceglievano di sistemarsi, le loro case nomadi). La convivenza era di tipo coniugale in quanto condividevano tutto, trascorrevano la giornata insieme e venivano mandati a combattere insieme. Tuttavia il maschilismo persisteva: si obbediva alle donne in combattimento, ma durante il riposo tornavano a riprodursi i ruoli presenti in città. Nell’accampamento le donne andavano al fiume a lavare i panni e cucinavano per il loro uomo, eppure combattevano alla pari con i maschi, distinguendosi per la loro aria serena e coraggiosa, il che sorprese la neoguerrigliera dandole un paio di cosette su cui riflettere. Quando si arriva a certi livelli di determinazione, la decisione va spinta sino in fondo, con grande tenacia. Allora comprese che maschilismo non significava valore e coraggio, vide uomini tremare in combattimento mentre le donne restavano imperturbabili. Nel momento in cui la guerriglia guatemalteca era maggiormente attiva, la presenza femminile era di uno a cinque: tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, le donne costituivano circa il venti per cento dei combattenti. La donna maya, la cui vita era sempre stata durissima, sopportava meglio queste condizioni di vita rispetto alla donna ladina. Quest’ultima viveva una grande contraddizione tra il desiderio di fare e le proprie condizioni fisiche. Chiedeva il congedo, preferiva correre il rischio di essere imprigionata e fatta sparire in città piuttosto che restare lassù. Reina difendeva in via teorica la vita della guerrigliera, ma lo faceva senza la dovuta obiettività, tralasciando i complicati rapporti interpersonali, i conflitti di autorità e le debolezze fisiche. A volte le condizioni igieniche erano pessime, lei cercava di farsi un bagno ogni giorno sfruttando quello che la natura le offriva, un fiume, un ruscello, e se questi erano troppo distanti si serviva di una tanica di plastica piena d’acqua. Reina faceva il bagno nuda, mentre le donne maya, più conservatrici e pudiche, non erano disinvolte come lei, la cittadina , e lo facevano in reggiseno e mutandine. L’amore era vissuto al fronte come nella vita. Reina ebbe una passione talmente intensa con un compagno che quando lei considerò conclusa la loro storia e ne iniziò un’altra, l’uomo, fuori di sé, scaricò la rabbia e il rancore che provava lanciando una granata verso il luogo dove dormiva la nuova coppia. La granata esplose, ci furono dei feriti; il fatto suscitò un terribile scandalo che arrivò fino ai più alti livelli del comando: nessuno dei presenti l’avrebbe mai dimenticato. Questo episodio fu una dura lezione per Reina, in quanto dovette ricostruire nel proprio immaginario l’idea che un guerrigliero non dovrebbe mai permettere alla forza della passione di prendere il sopravvento sulla forza della militanza.
Questo è un atto di volontà, Luciano… aiutami… non voltare la faccia, soltanto se fisso l’attenzione su di te riesco ad ascoltarti… ormai manca poco, vero?… stai fermo qui, davanti a me, mi sento mancare…

Essere di fiume senza pesci – Rosario Castellanos (Messico)

Essere di fiume senza pesci, questo fui. E vado rivestita di schiuma e ghiaccio. Affogato e rotto porto tutto il cielo e l’albero mi si consegna ferito.
A due rive del dolore aggiogato va il mio fiume a un mare sconosciuto. L’airone dalla sua palude è alto volo e addio e breve sole poi svanito.
Per morire senza canto, avanza cieco morso da vuoto e nostalgia. Ah, però a volte profondo e placato si ferma sotto un’ombra pura. Si ferma e riceve la bellezza con un lieve fremito meravigliato.

 

Ilona arriva con la pioggia – Alvaro Mutis (Colombia)
C’era nella donna qualcosa che mi sfuggiva a ogni istante. Non perché si proponesse di nasconderlo ma, piuttosto, perché apparteneva a un mondo che io non conoscevo e che, senza essere ostile, rappresentava forze, correnti, regioni che erano per me terra incognita. Quando Larissa si alzò in piedi per andarsene, anche Ilona lo fece e la accompagnò sino alla scala. Attraversarono la camera da letto conversando a voce bassa, mentre Ilona le passava un braccio attorno alle spalle, con un gesto che non le avevo mai visto fare con nessuna delle ragazze. Voleva sembrare materno, ma era piuttosto come se cercasse appoggio in qualcuno più forte di lei. All’inizio, la presenza di Larissa non fu molto evidente né apportò grandi cambiamenti nella quotidianità di Villa Rosa. Veniva spesso di mattina e stava con noi a prendere il sole in terrazza. Lei, sempre all’ombra, seduta sulla sedia che aveva scelto il primo giorno, circondata dai fiori di cambulo che le cadevano costantemente attorno; noi, a leggere o a continuare un dialogo in cui, regolarmente, passavamo in rivista città e luoghi conosciuti. I giudizi di Larissa erano sempre un po’ vaghi, come avvolti in una nebbia che finiva col non dare ai ricordi un profilo esatto, un volume definito. Questa era, invece, una delle qualità più evidenti nei racconti e nei ricordi di Ilona. Nel caso di Larissa, la vaghezza delle sue notizie si estendeva all’esistenza che conduceva a Panama. Non riuscivamo a sapere dove vivesse (…) Un’altra sua particolarità era la selezione dei clienti secondo una meticolosa scelta di certe caratteristiche di età, educazione e provenienza. (…) – Sì, lo so, forse sto chiedendo molto e non deve essere tra le regole della casa questo tipo di imposizioni. Lo capisco. Ma vedrete che, in pochissimo tempo, non sarà un problema per voi e, in cambio, per me sarà l’unico modo di fare questo lavoro con buoni risultati per tutti. Ilona rimase in silenzio. Io continuavo a guardare le nubi che passavano nel cielo spinte da una brezza che annunciava le piogge.

Gli amanti – Julio Cortázar (Argentina)
E chi li vede che se ne vanno per la città
se tutti sono ciechi?
Loro si prendono per mano: qualcosa parla
fra le dita, dolci lingue lambiscono
l’umido palmo, corrono per le falangi,
e sopra sta la notte piena d’occhi.
Sono gli amanti, la loro isola fluttua alla deriva
verso morti di cespuglio, verso porti
che fra lenzuola si aprono.
Si disordina tutto attraverso gli amanti,
tutto trova la sua cifra giocata;
loro, però, neppure sanno che
mentre rotolano nell’amara arena
che è loro c’è una pausa nell’opera del nulla,
e che il tigre è un giardino che gioca.
Albeggia nei carri dell’immondizia,
cominciano a uscire i ciechi,
il ministero apre i suoi portoni.
Gli amanti arresi si guardano e si toccano
una volta di più prima di fiutare il giorno.
E già sono vestiti, già se ne vanno per la strada.
Ed è solo allora
quando sono morti, quando sono vestiti,
che la città li recupera ipocrita
e gli impone i doveri quotidiani.

foto: Laura Garau

 

Miguilim – João Guimarães Rosa (Brasile)
Un certo Miguilim viveva con la madre, il padre e i fratelli, lontano, assai lontano di qui, molto più in là della Vereda-della-Gallinella-d’Acqua, e di altre veredas senza nome o poco conosciute, in un punto remoto, nel Mutùm. In mezzo ai Campos Gerais, ma in un avvallamento in zona di foreste, terra nera, alle falde delle montagne. Miguilim aveva otto anni. Quando ne aveva compiuti sette, si era allontanato di lì per la prima volta: lo zio Terêz l’aveva portato a cavallo, sul davanti della sella, perché fosse cresimato a Sucurijù, dove passava il vescovo. Del viaggio, che durò vari giorni, Miguilim aveva conservato intontiti ricordi, che si confondevano nella sua testolina. Di una cosa, non poteva dimenticarsi: qualcuno, che era stato nel Mutùm, aveva detto: – È un bel posto, tra i monti, con molte petraie e molta foresta, fuori di mano; e ci piove sempre… (…) La lucciola. A Mamma piaceva, parlava, carezzando i capelli di Miguilim. – Il loro luccicare è un segno d’amore… Un cavallo si spaventava, con paura che la lucciola desse fuoco alla notte. Un altro cavallo scalpitava, infastidito dall’immobilità. Una lucciola si spegne, scendendo in fondo al mare. – Mamma, che cosa è il mare, Mamma? Il mare era lontano, molto lontano di lì, specie di lago enorme, una quantità d’acqua senza fine, anche Mamma non aveva mai visto il mare, sospirava. – Allora, Mamma mare è quello che si ha nostalgia? Miguilim non domandava altro.

Il Futuro – Julio Cortázar (Argentina)

E so molto bene che non ci sarai.
Non ci sarai nella strada,
non nel mormorio che sgorga di notte
dai pali che la illuminano,
neppure nel gesto di scegliere il menù,
o nel sorriso che alleggerisce il “tutto completo” delle sotterranee,
nei libri prestati e nell’arrivederci a domani.

Nei miei sogni non ci sarai,
nel destino originale delle parole,
nè ci sarai in un numero di telefono
o nel colore di un paio di guanti, di una blusa.
Mi infurierò, amor mio, e non sarà per te,
e non per te comprerò dolci,
all’angolo della strada mi fermerò,
a quell’angolo a cui non svolterai,
e dirò le parole che si dicono
e mangerò le cose che si mangiano
e sognerò i sogni che si sognano
e so molto bene che non ci sarai,
nè qui dentro, il carcere dove ancora ti detengo,
nè la fuori, in quel fiume di strade e di ponti.
Non ci sarai per niente, non sarai neppure ricordo,
e quando ti penserò, penserò un pensiero
che oscuramente cerca di ricordarsi di te.

Parabola dell’incostante – Rosario Castellanos (Brasile)
Prima quando mi parlavo di me stessa, dicevo:
se io sono quello che sono
e lascio che nel mio corpo, che nei miei anni
si verifichi quel processo
che il seme concede all’albero
e la pietra alla statua, sarò la pienezza.
E forse era la verità. Una verità.
Ma, ahimè, mi destavo docile come l’edera
per attaccarmi a una parete come l’innamorato
si appiglia all’altro con i suoi giuramenti.
E poi io spargevo attorno a me, eretta
in solidità di rovere,
la rumorosa solitudine, l’ombra
ospitale e davo al viandante
− al suo coltello acuto di memoria –
la testimonianza fedele della mia corteccia.
Il mio atteggiamento era a volte il riposo
e altre il rapimento,
la grazia o il furore, sempre i due contrari
pronti ad annichilirsi
e ad emergere dalle rovine dello sconfitto.
Ogni ora soppiantavo qualcuno; ogni ora
me ne andavo da qualche locanda smantellata
nella quale non trovai neppure una pessima candela
e nella quale non mi fu possibile lasciare nulla.
Usurpavo i nomi, mi coronavo di loro
per scagliare poi, lontano da me, il bottino.
Eccomi qui, ormai alla fine, e ancora
non so che faccia darò alla morte.

Il re dell’Avana – Pedro Juan Gutiérrez (Cuba)

Rey non le ascoltava nemmeno. Si servì due piatti di tamal. Li trangugiò. Se per caso anche Yamilé avesse avuto fame, ormai era troppo tardi. Pancia piena, cuor contento. Sandra, in mutande, con le tettine all’aria, cominciò il maquillage. Creme ammorbidenti, fondotinta, cipria, rossetto, parrucca bionda, ombretto, ciglia finte, unghie finte. Ci mise più di un’ora. Quel mulatto bello, androgino, affascinante, pian piano si trasformò in una mulatta dal fascino particolare, con una forte carica sessuale. Rey si limitò a guardare, senza dir niente. Gli piaceva. Prese una sigaretta Popular offerta da Yamilé, l’aprì, ne tolse il tabacco, la riempì d’erba e l’accese. Quando Yamilé riconobbe l’aroma, gli disse: – dev’essere forte. Non perdi tempo, tu. Rey le offrì di fumare, ma lei rifiutò. – Quella serve per giocare, di giorno. Ma di notte noi lavoriamo sodo. Tirò fuori una bustina di coca. Scaldò un piatto, la preparò, fece quattro piste. Prese una banconota nuova da dieci dollari e l’arrotolò. Aspirò una pista da ogni narice. Sandra fece lo stesso e… ohh meraviglia! In due minuti si trasformarono nelle più allegre vedette dell’Avana. Un euforia straordinaria. Ridendo a crepapelle interpretarono una gag per Rey, ballando con gridolini lussuriosi il cancan come al Moulin Rouge. Infine si presentarono al loro pubblico: – Ladies and gentlemen, ecco a voi… direttamente dai caraibi, l’Avana… Le Ragazze Tuttopepe! Pepe puro macinato! Pepe caldo, pieno di sole. Le Spice Girls! Yamilé cominciò poi uno strep-tease molto insinuante, ma non andò oltre il sollevare la gonna e abbassare le mutande per mostrare il vello. Sandra invece tornò al suo maquillage. Rey non ce la faceva più. -Una donna è sempre una donna. Qualunque donna. Questa poi si potrebbe chiavarla ventiquattro ore al giorno senza stancarsi mai, pensava, ed ebbe una fenomenale erezione.

Ti offro – Jorge Luis Borges (Argentina)

Ti offro strade difficili, tramonti disperati,
la luna di squallide periferie.
Ti offro le amarezze di un uomo
che ha guardato a lungo la triste luna.
Ti offro i miei antenati, i miei morti,
i fantasmi a cui i viventi hanno reso onore col marmo:
il padre di mio padre ucciso sulla frontiera di Buenos Aires,
due pallottole attraverso i suoi polmoni, barbuto e morto,
avvolto dai soldati nella pelle di una mucca;
il nonno di mia madre – appena ventiquattrenne –
a capo di un cambio di trecento uomini in Perù,
ora fantasmi su cavalli svaniti.
Ti offro qualsiasi intuizione sia nei miei libri,
qualsiasi virilità o vita umana.
Ti offro la lealtà di un uomo
che non è mai stato leale.
Ti offro quel nocciolo di me stesso
che ho conservato, in qualche modo –
il centro del cuore che non tratta con le parole,
né coi sogni e non è toccato dal tempo,
dalla gioia, dalle avversità.
Ti offro il ricordo di una
rosa gialla al tramonto,
anni prima che tu nascessi.
Ti offro spiegazioni di te stessa,
teorie su di te, autentiche e sorprendenti notizie di te.
Ti posso dare la mia tristezza,
la mia oscurità, la fame del mio cuore;
cerco di corromperti con l’incertezza,
il pericolo, la sconfitta.

La danza immobile – Manuel Scorza (Perù)

– Santiago, amor mio. E mi baciò. Mi baciò. Io volli dirle non so che cosa. Le sue labbra sulle mie labbra non mi lasciarono parlare. Il suo ventre sul mio ventre non mi lasciò pensare. I suoi seni torridi, il suo corpo come una torcia di miele, i suoi vestiti che cadevano come cenere, la sua improvvisa nudità non mi lasciarono respirare. Precipitammo in fondo a un godimento urgente. La possedetti con furia. Con fretta da annegato le mie mani la trascinarono alla fine degli oceani. Solo dopo molto i nostri corpi risalirono lentamente in superficie, rimasero arenati sulle sabbie del tappeto, vollero riposare coperti di spume, di alghe, ma non li lasciammo, nuotammo ancora verso quelle isole galleggianti, che ci attraevano in fondo allo stesso godimento che era già un altro, e, senza più sapere se appartenevamo alle acque o all’aria, i nostri corpi ripresero a salire, si ritrovarono arenati, di nuovo ci sommersero.

DI TERRA, D’AMORE E DI ALTRI LUOGHI
con:
Tania Giugni Rodari (chitarra e voce)
Francesca Arca (voce narrante)
Francesca Panu (in corpo e movimento)

Canzoni e musiche di: Tania Giugni Rodari, María Elena Walsh, Tomás Méndez, Gardel – Le Pera, Violeta Parra

Ideazione, progettazione e ricerca testuale di Daniele Salis e Laura Garau.
Grafica locandina di Giorgio Gaetani

 

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