LA LINEA DI OSVALDO CAVANDOLI

da “I DIARI DI CINECLUB, n.82, APRILE 2020 (puoi scaricare gratuitamente l’ultimo numero della rivista cliccando QUI)

Cade quest’anno il centenario di Osvaldo Cavandoli, nato il primo gennaio 1920 a Toscolano Maderno, sul lago di Garda. Per i moltissimi lettori che non hanno mai varcato il confine del ghetto dell’animazione, il suo nome non dice nulla; eppure egli è stato, a livello globale, uno dei più celebri cineasti del nostro Paese.

Forse alcuni ricordano il personaggio animato della Linea, che egli introdusse in Carosello sul finire degli anni 1960 come pubblicità per un’azienda di pentole a pressione. Si trattava di un omino in silhouette che camminava e agiva su una retta bianca orizzontale potenzialmente interminabile.

Da questo spunto Osvaldo continuò a creare dei micrometraggi di puro entertainment che ebbero un enorme successo all’estero; in particolare in tutta Europa, ma senza tralasciare nessuno dei continenti abitati.

Chi scrive ricorda di aver visto una Linea dipinta da un buontempone sull’asfalto stradale in Islanda, e un’insegna luminosa di una botteguccia iraniana di Isfahan, dove la Linea dava allegramente di pagaia su un gommone. 

I micrometraggi (due minuti e mezzo al massimo) furono in tutto un’ottantina; non tanti quanti ci si aspetterebbe dalla numerazione che appare in ogni apertura. Ma l’animatore, incline alle burle purché innocue, aveva adottato un depistante metodo di numerazione.

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Le cifre non andavano lette come centinaia, ma come numeri progressivi delle serie: così 101 indicava il primo short della prima serie, 201 il primo short della seconda serie, e così via.

Il Paese natale fu ingratissimo con questo suo esponente. La Linea fu respinta da tutti i teleschermi dello Stivale in quanto “pubblicità occulta”, perché accusata di richiamare il prodotto che aveva sponsorizzato originariamente.

Il più prestigioso festival internazionale del film d’animazione, quello di Annecy (Alta Savoia, Francia), gli dedicò nel giugno 2006 un fastoso e festoso omaggio, con un’ovazione di duemila persone in piedi la serata d’apertura.

Nove mesi dopo, a Milano, il 3 marzo 2007, non più di una quindicina di parenti e amici accompagnava il feretro dell’artista che lasciava i vivi.

Radicatosi fin dall’infanzia a Milano (1924), ed esentato dal servizio in guerra per un grave difetto alla vista, aveva imparato il mestiere da Nino Pagot ed era stato uno degli animatori di punta del mediometraggio Lalla, piccola Lalla (1946) e del lungometraggio I fratelli Dinamite (1949).

Poi si era messo in proprio e aveva fatto una decina di pubblicità cinematografiche a pupazzi animati e a colori (sistema Ferraniacolor); di ottimo livello ma di scarsa presa sul pubblico. La pubblicità di Carosello, nata nel 1957, non l’aveva coinvolto.

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Nel 1969 si considerava un autore che il treno del successo aveva sorpassato senza fermarsi alla sua stazione. Portava capelli corti e abiti dimessi. Un tecnico. Nel 1969 arrivò finalmente la Linea. Nei primi mesi della parabola crescente del suo personaggio, in Italia e all’estero, ripeteva a tutti: “Adesso non mettetevi a cercarci dentro chissà quale filosofia… È una cosetta per ridere.

Non immaginava che la stazione era situata ai suoi cinquant’anni, e che lì il treno lo avrebbe raccolto. Fu allora che sbocciò il suo vero se stesso. Abbigliamento divertente (sempre con gusto), un foulard rapidamente divenuto immancabile, capelli a onda, poi la barba candida.

Vanità, testa montata? No, solo la conquista della propria autentica natura. Il diritto di giocare in serie A accanto a tutti coloro che fino a quel momento aveva guardato dagli spalti. Il Cinestudio Cavandoli non si espanse. Rimase placidamente lo studio di un uomo solo, in via Prina 10 a Milano, all’ombra dell’antenna della Rai di corso Sempione.

Lui non uscì mai dalla sua condizione di artigiano. “Non voglio essere comandato e non voglio comandare” era il suo motto. La Linea è il perfetto connubio fra le due grandi correnti del disegno animato del Novecento, la personality animation disneiana (animazione di un personaggio che “recita” con tutto il corpo, esprimendo una personalità) e la limited animation della UPA di Bobe Cannon e di John Hubley (stilizzazione del personaggio, dei suoi movimenti e dell’ambiente).

L’omino che passeggia nel suo universo bidimensionale, facendo incontri buffi con creature altrettanto bidimensionali, era nato per una televisione ancora in bianco e nero. L’ambiente era un limbo grigio, che con l’avvento del colore divenne significativo a seconda della situazione: verde per la pace campestre, rosso per le situazioni drammatiche, azzurro per il mare, blu per le relazioni interpersonali, e così via.

Cavandoli reinventava, senza saperlo, il linguaggio delle imbibizioni o dei viraggi dell’epoca del cinema muto: un accompagnamento cromatico facente la funzione di un accompagnamento musicale. Abbiamo parlato di bidimensionalità, ma in realtà il cinema “dal vero” interviene con tutto il suo apporto di concretezza nella figura della Mano, che intrattiene un rapporto continuo di creatore a creatura (si tratta della mano dello stesso Cavandoli, piazzata sotto l’obiettivo).

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A volte il demiurgo viene chiamato in causa dal protagonista stesso, a volte gli impone degli scherzi, a volte rappresenta la benevolenza contro l’ostilità, perché contrasta la discesa in campo della… Sinistra Mano – nel doppio senso che l’aggettivo comporta.

La terza componente di questo giocoso Kammerspiel è il borborigmo che porta il personaggio nell’universo dei suoni: lo splendido grammelot dell’attore e doppiatore Carlo Bonomi, una maschera vocale, una stilizzazione del discorso che dice più delle parole vere e proprie perché le spoglia degli elementi superflui.

Cavandoli ha certo voluto complicarsi la vita, quando ha inventato un personaggio che esiste solo di profilo, che non ha lineamenti facciali se non un gran nasone, che non può arrossire o impallidire. Ma con questo egli esprime comunque una vasta gamma di emozioni e di idee, grazie alla mimica del corpo, a una incisività espressiva e, in definitiva, a una forte carica di autoritratto.

A suo tempo, una scommessa analoga aveva fatto con se stesso Buster Keaton, che si era proibito di sorridere; e in quella sua grande “faccia di pietra” (mai soprannome giornalistico fu tanto sbagliato) si poteva leggere qualunque stato d’animo.

Dopo tanta spoliazione, si può dire che la Linea è universale? Ho posto spesso questa domanda ai colleghi stranieri, e la risposta è sempre stata “no, è italiano”. La Linea è certo esente dagli stereotipi del napoletano chiassoso o del milanese tutto sfilate di moda, ma la sua ricettività al fascino femminile, la sua impulsività, le sue assai passeggere stizze ne fanno certamente uno di noi.

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L’ottimo animatore bavarese Andreas Hykade fece per qualche anno, tra le altre cose, una versione personalissima della Linea. “Naturalmente tu sai di avere scopiazzato Cavandoli” gli dissi in proposito. Mi rispose con un sorriso da candida canaglia: “Certo. Era perfetto. Ma non ho copiato. Ho rubato”. Chiudo questo memoriale con un aneddoto. Chiesi una volta a Osvaldo: “La tua retta tende all’infinito, no?” Rispose: “No. La retta finisce nella matita e la matita finisce nella mano del disegnatore. Ma non li hai visti i miei film?

Giannalberto Bendazzi (Critico e storico del cinema, specializzato nell’animazione. Fra i suoi libri va citato Animazione – Una storia globale (2 tomi, Utet, Milano 2018). Nel 2019 l’Università Lusofona di Lisbona lo ha insignito della Laurea Honoris Causa.)

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