CHARLIE CHAPLIN
da “I DIARI DI CINECLUB, n.85, LUGLIO 2020 (puoi scaricare gratuitamente l’ultimo numero della rivista cliccando QUI)
Tra i grandi registi che hanno elevato il film a espressione artistica, a opera creativa di alto valore estetico, vi è sicuramente Charlie Chaplin, per il quale l’appellativo di genio rischia di apparire riduttivo.
Bisogna premettere che la sua grandezza è legata essenzialmente al cinema muto il quale, per la sua stessa natura, riponeva tutta la sua forza espressiva esclusivamente nell’immagine. L’intervento della parola sarebbe stato, nelle pellicole della prima parte della sua carriera, un’aggiunta inutile, un sovrappiù che avrebbe appesantito un’opera già perfetta.
Nei film di Chaplin al linguaggio si sostituisce in genere la pantomima. Egli non dice d’esser contento perché alcune ragazze verranno a trovarlo, ma esegue la danza silenziosa in cui due panini infilati sulle forchette si muovono come gambe sul tavolo (La febbre dell’oro). Non discute, fa a pugni
Rudolf Arnheim, Film come arte, Giangiacomo Feltrinelli editore, Milano, 1960
La concretezza delle immagini di Chaplin vale più di mille parole. Il cinema è un’arte visiva e dovrebbe essere fondata sul valore delle immagini. La parola ha semplicemente la funzione di chiarire il significato delle sequenze del film in maniera rapida evitando l’impiego di noiosi passaggi di raccordo.
L’importanza dell’immagine è un aspetto fondamentale che ad esempio distingue il cinema dal teatro. Infatti, mentre il primo è il regno dell’immagine, il teatro è il regno della parola.
Muto o Sonoro?
Il grande regista Stanley Kubrick si lamentava, ai tempi dell’uscita di 2001: Odissea dello spazio, del fatto che molte persone cercassero di capire il senso dell’opera semplicemente ascoltando i dialoghi invece di provare ad estrarlo dalle immagini.
Nel saggio già citato sul cinema, Rudolf Arnheim esalta il valore estetico della scena girata da Josef Von Sternberg nella pellicola muta I dannati dell’oceano (1928). Il regista infatti per rendere l’effetto acustico dello sparo di una pistola mostra la rivoltella sparare e subito dopo uno stormo di uccelli che si alza in volo all’improvviso.
Quella che in un film sonoro sarebbe stata una banale sequenza viene trasformata dalla genialità di Sternberg in un momento di grande valore artistico. Lo studioso e psicologo di Berlino sosteneva, non a torto, che l’avvento del sonoro aveva fatto perdere al film parte della sua qualità estetica e del suo fascino.
Nelle sue pellicole mute Chaplin era riuscito a trasformare quello che alcuni ritenevano un limite del film – l’incapacità di rendere il suono – in una qualità, in un pregio. La supremazia che giustamente Chaplin accordava all’immagine veniva messa in discussione dall’elemento sonoro che poco aveva a che fare con un’arte visiva come il cinema.
Attraverso un cinema essenziale Chaplin riesce spesso a raggiungere esiti di alta poesia. Basti pensare all’episodio della fioraia cieca di Luci della città (1931), film che è uno dei vertici assoluti del cinema muto. La toccante sequenza in cui la fioraia che, operata, ha riacquistato la vista riconosce in Charlot il benefattore che ha cambiato la sua vita, si impone per una delicatezza e lirismo che raramente la settima arte ha saputo eguagliare in seguito.
Altro culmine dell’arte di Chaplin è La febbre dell’oro, (1925). Il racconto mitico della frontiera viene affrontato dal grande regista e attore con la consueta abilità nel coniugare potenza comica a spunti poetici.
Una scena che è passata alla storia del cinema è quella in cui Charlot mangia uno stivale con grande eleganza. Arrotola i lacci come se fossero spaghetti, succhiando i chiodi che tengono attaccata la suola allo scarpone come fossero ossi di pollo.
La descrizione della fame che attanaglia il protagonista non è ottenuta banalmente mostrando il contrasto tra il pasto di un ricco e quello di un povero. Si utilizza una similitudine, inesistente nella realtà, tra il cibo gustoso e uno stivale sporco.
La modernità intesa nel senso dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo viene critica, con la consueta irresistibile successione di gag visive, in Tempi moderni (1936) mentre Il grande dittatore (1940) è una potente satira contro i regimi nazisti e fascisti.
Evoluzione
L’avvento del sonoro, come detto, vede il suo lavoro perdere di vitalità estetica. Questa innovazione comporta notevoli cambiamenti nella realizzazione delle opere filmiche costringendo i registi a tener da conto di un nuovo elemento nella costruzione della pellicola.
La determinazione della scansione ritmica ai tempi del muto dipendeva unicamente dalla cadenza con cui si susseguivano le inquadrature. Oggi può venir determinata dal volume e dalla colonna sonora.
Karel Reisz-Gavin Millar, La tecnica del montaggio cinematografico, SugarCo edizioni
srl, Milano
Alcuni film sonori di Chaplin inclinano verso un’amara visione dell’esistenza come dimostrano Monsieur Verdoux (1947) e Luci della ribalta (1952). In quest’ultima pellicola possiamo scorgere nel personaggio dell’anziano pagliaccio oramai incapace di far ridere il pubblico, una trasparente analogia con lo stesso Chaplin, un gigante del muto che aveva sempre visto nel sonoro un nemico dell’arte.
A chiudere la sua straordinaria carriera è un’opera tutt’altro che memorabile. Ci riferiamo alla fiacca commedia La contessa di Hong Kong (1967) che segna anche l’incontro del grande regista con il colore. La critica non risparmia fendenti al geniale inventore di Charlot.
Una triste sorte sembra accomunare due grandi del cinema, due maestri. Dreyer e Chaplin vengono accusati di senescenza artistica, a poca distanza l’uno dall’altro, dopo Gertrud e La Contessa di Hong Kong.
Guido Aristarco, L’utopia cinematografica, Sellerio editore, Palermo, 1984
Destino comune per due giganti del muto che hanno percorso la settima arte regalando momenti di poesia indimenticabili.
Fabio Massimo Penna
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