GIOCANDO A PERDERSI: DA TINNURA A FLUSSIO A SENNARIOLO

di Francesca Arca

Il pensiero obbligatorio quando si parla di Sardegna in pieno agosto porta inevitabilmente al mare. Le spiagge affollate, il mare sempre trasparente, il vento che spazza via la fatica di un anno di lavoro. È tutto vero, sì. Ma fermarsi ad arrostire al sole, non è l’unica opportunità da cogliere. A volte immaginiamo la Sardegna come un’immensa lingua di spiaggia rettangolare con al centro un punto interrogativo che non trova risposta. Basterebbe mettersi in auto e allontanarsi anche non di molto dalla costa per scoprire dei mondi paralleli incredibilmente pieni di energia che rigenera forse più dei raggi solari stessi. Mettersi in auto e perdersi nel paesaggio, controllando di tanto in tanto la presenza della rete sullo smartphone è una cosa da provare per dimenticare per un po’ i selfie su Instagram e chiedersi quanti minuti passeranno prima di incrociare un’altra auto; fermarsi ogni tanto in qualche piazzuola di servizio e guardare un albero di mele selvatiche che sporge sulla strada statale piegato dal vento e dai frutti; parlare senza chiacchiericcio, senza racconto, ma mostrarsi vicendevolmente ciò che di bello fa mostra di sé davanti agli occhi, con la voglia di condividere uno scorcio, un’espressione, un cambiamento di luce o un’anomalia nel paesaggio. Oltrepassare paesini e volti e di ognuno domandarsi la storia, la vita e i pensieri. Così si scoprono gemme infinite come Tinnura, Flussio e Sennariolo. Piccoli e preziosi nel loro essere presenti e vivi eppure così fuori da qualsiasi linea temporale segnata dall’uomo per ricordarsi di se stesso. Luoghi che ti danno l’idea di essere lì da prima che il mondo iniziasse ad essere misurato e che lì continueranno ad essere a dispetto di qualsiasi sguardo, sotto forme diverse, ma presenti. E allora perdersi a guardare donne che intrecciano giunchi, signori anziani che chiacchierano osservando i turisti stupiti di essere giunti in quei luoghi e l’estate che ti ricorda di esserci prendendo la forma di un tormentone estivo che arriva dalla radio di un bar. La “paesitudine”, che spesso con ignorante sarcasmo viene associata a qualcosa di arretrato, ti osserva con signorile fierezza e accogliente tocco, distribuendo calore e bellezza a chiunque sappia e voglia coglierla. A chiunque. A misura d’uomo.

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