QUELLA VOGLIA DI NON PARLARE

Non è semplicissimo spiegare la sensazione di aver voglia di non parlare. Intanto è utile specificare che si ha voglia di restare in silenzio non perché non si sappia cosa dire o perché non si senta il bisogno di comunicare con l’esterno. C’è sempre qualcosa che si può dire per spezzare un silenzio, specie in momenti di isolamento come questi che viviamo.

Credo sia qualcosa di più profondo. Ascolto, leggo tante delle cose che vengono scritte, scrivo a mia volta. Mi manca la voglia di esprimerle con la voce. Se non conto le normali telefonate che ho sempre fatto e che continuo a fare credo di essere diventata allergica al telefono.

In una negazione pressoché totale del proprio corpo e del corpo altrui – nel paradosso proprio di preservare lo stesso – la comunicazione vocale sta diventando per me qualcosa di fastidioso.

Mi trovo in una sorta di “maggese”. Sono pochissime le persone con le quali riesco a parlare. Più spesso preferisco rifugiarmi nella parola scritta e anche da questo punto di vista mi accorgo di fare comunque fatica.

Le video-chiamate invece mi son quasi del tutto intollerabili. Ogni succedaneo della comunicazione fisica mi crea profondo fastidio. Tanto vale quindi scrivere ché la scrittura nasce proprio dall’assenza del corpo.

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La mia voglia di non parlare procede lenta, graduale e inesorabile. Non ho ansia, né paura eccessiva. Vivo ogni giorno normalizzando il più possibile una condizione imposta che tutti riteniamo necessaria.

In un momento nel quale ogni tipo di tecnologia viene presa d’assalto nel tentativo di simulare ciò che il corpo non può fare, in cui ognuno pare avere una voglia compulsiva di telefonare, video-chiamare, mandare messaggi vocali, io mi ritrovo a non voler parlare.

Non è una forma di partito preso. Mi chiedo solo cosa ci sia da dirsi di così fondamentale. Sono molto poche le conversazioni che mi hanno fatto bene e che mi hanno dato la possibilità di riflettere sulla mia e sulla altrui condizione.

Il resto ha il sapore della fuga da Alcatraz. Forse perché ho l’immensa fortuna di non sentirmi ad Alcatraz ho voglia di non parlare. Se lo faccio è per dire o sentirmi dire qualcosa che mi tocchi. C’è così poco da raccontare delle nostre giornate che le telefonate – se non quelle agli affetti fondamentali – diventano pressoché inutili.

«Che fai? Che hai cucinato? C’è qualcosa in tv?»

Non la giudico una cosa sbagliata. Va bene se qualcuno trova conforto in questo. A me non lo dà. Crea piuttosto un problema. Non voglio sapere cosa sta facendo qualcun altro. Voglio sapere che sente e che pensa, perché tutto in queste giornate si svolge molto più dentro che fuori da noi.

«Come ti senti davvero? Che stai pensando?» queste sono le uniche domande che mi interessa sentire da un’altra voce. Il resto è cazzeggio e per il cazzeggio basta un video, un meme e avrà certamente più calore. Ma la voce è riservata a pochi, come gli abbracci.

Francesca Arca

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